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Dalla Pop Art alla Pop Star

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“L’arte riguarda l’esserci, qui e ora. Cogliere il giorno. cercare di cogliere la parte migliore del giorno.”

(Damien Hirst)

Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991

Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991

Non importa ciò che fai, ma importa come lo vendi; principio cardine del mondo contemporaneo, attraverso il quale tutto può essere arte.

L’aveva capito Warhol e prima di lui Salvador Dalì, un autentico precursore, fu uno dei primi artisti a lavorare senza problemi per il mercato e a diventare un vero personaggio, un’icona riconoscibile e riconosciuta.

Personalità forti che intuirono le regole del gioco e ci si tuffarono dentro senza troppe remore: servendosi della potenza dei media trasformarono i loro nomi in un’autentica mitologia e la loro opera, a quel punto, diventò assai contesa, al di là ed oltre il suo reale valore.

Da Dalì a Warhol fino agli attuali divi del mondo dell’arte come Jeff Koons, ex agente di borsa, Damien Hirst, una creatura di Charles Saatchi, e Maurizio Cattelan, la perfetta rock star capace di trasformare gli oggetti in sensazionali effetti mediatici.

Più che artisti, possiamo definirli grandi esperti di business che hanno capito, prima di altri, che oramai l’arte si gioca tra le piazze finanziarie di New York e di Londra.

Maurizio Cattelan, L.O.V.E, 2010

Maurizio Cattelan, L.O.V.E., (acronimo di Libertà, Odio, Vendetta, Eternità), 2010

Il loro cinismo ha trasformato l’arte in puro mercato e l’artista in una pop star: la prova della follia dell’arte.

L’opera perde così di centralità, alla fine è più bravo chi riesce a vendere di più, chi stupisce di più, chi comunica di più: mercato e comunicazione, questo è il binomio vincente.

In questo scenario l’opera d’arte non ha più a che fare con la sua qualità intrinseca, ma con la sua quotazione, con il prezzo che qualcuno è disposto a pagare.

Seguendo questa logica, dunque, il gesto artistico autonomo, frutto di un genio creativo, può dirsi solo una pia illusione: l’arte sta lì dove il mercato è disposto a comprare e, come ben sappiamo, il mercato non si regge su logiche di gusto o di cultura, ma si fonda su dinamiche speculative.

Jeff Koons, Big Balloon Dog (Orange), 1994-2000

Jeff Koons, Big Balloon Dog (Orange), 1994-2000

Ecco che oggi gli artisti, le celebrities dello star system, sono coloro che, navigando sull’onda del commercio, hanno arricchito l’opera di un valore aggiunto che è il brand, il marchio: l’arte svilita ad oggetto seriale trova la sua sigla originale nella personalità dell’artista, promossa e pubblicizzata fino allo spasimo.

Non esistono più capolavori perché non c’è più lavoro dietro al fare artistico, ridotto ad un gesto, ad una provocazione, ad uno scandalo, ad un evento sensazionale e sensazionalistico: l’artista è il vero capolavoro di se stesso, ciò che è unico ed irripetibile e che, re Mida del mondo contemporaneo, trasforma in oro tutto ciò che tocca.

“Warhol è stato il primo a rendere accettabile che gli artisti pensassero ai soldi. Ma da un certo punto di vista è come se Warhol non ci fosse mai stato. Prima di lui e dopo di lui è come se gli artisti abbiano sempre pensato che i soldi arrugginiscono l’arte. Ma l’arte adesso è più popolare. Per quanto mi riguarda, penso che gli artisti debbano affrontare la questione soldi.” (Damien Hirst)

Soldi, denaro, successo, fama, a questo si è ridotta l’arte ai nostri giorni e ce lo confermano le aste che battono migliaia di dollari per opere che, a mio parere, saranno destinate a svanire come bolle di sapone, perse nel dimenticatoio e nella vacuità della loro essenza.

Damien Hirst, For the Love of God, 2007

Damien Hirst, For the Love of God, 2007

For the Love of God rappresenta, a tal proposito, l’opera simbolo di un mondo dove l’arte è morta per rinascere sotto forma di denaro: 8.601 diamanti, per un totale di 1.106 carati, sono stati adoperati da Damien Hirst per decorare un teschio umano.

Effige estrema della capitalizzazione dell’arte, ma anche feticcio glamour dell’arte che va di moda, il cranio di Hirst rappresenta il trionfo del lusso e dell’ostentazione, ma anche una sincera esternazione di come va e di chi guida il mondo.

La Grande Signora trionfa nel suo più sfavillante abito da sera: il tentativo di irridere la morte ma, soprattutto, l’immagine di un deciso ribaltamento dei valori.

Vi è ancora traccia di qualche artista che sogna di lasciare un segno attraverso opere durevoli, faticando, arrancando e, molto spesso, rimanendo estraneo ai luoghi dove si mercanteggia e dove l’arte diviene tale.

E’ tuttavia sempre più diffusa la convinzione che intessere una fitta rete di relazioni sia fondamentale perché le nostre azioni abbiano successo.

Ecco così proliferare le carriere di questi artisti per i quali la comunicazione conta più dell’opera stessa: un inutile gioco autoreferenziale a cui sembra si stia riducendo il mondo.

Jeff Koons, Michael Jackson and Bubbles, 1988

Jeff Koons, Michael Jackson and Bubbles, 1988

“… già Andy Warhol realizzava la morte dell’arte. I suoi quadri erano brutti, ma il cinismo del suo lavoro era una novità. Oggi però quello stesso cinismo non è più riproponibile.

Non si può esporre di nuovo l’orinatoio di Duchamp. Eppure c’è chi lo fa. L’arte diventa così un passatempo divertente, al cui interno si può fare di tutto.

I risultati però non lasciano traccia. Si consumano immediatamente e si dimenticano. Quest’arte non intriga più, è solo consumo. […] è tutto il sistema dell’arte ad essere prigioniero della quantità, come dimostrano i musei alla ricerca del record di pubblico.

L’arte rischia di essere soffocata dal denaro e dai record. Non a caso, circolano molte opere che non hanno nulla a che vedere con l’arte. Oggi la vera arte è underground, sepolta sotto una valanga d’opere inutili e commerciali.”

(Anselm Kiefer)

Marcel Duchamp, Orinatoio, 1917

Marcel Duchamp, Orinatoio, 1917

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